Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











lunedì 10 aprile 2017

GENESI 22 RELOADED

No, non fu la mano dell'angelo a fermare il coltello di Abraham. Fu Sara, che dopo un sogno gravido di angoscia, corse, sotto il peso dei suoi cent'anni, fino in terra di Moriah, su per le pendici del monte, inseguendo il marito e la sua carovana.
"Fermati, vecchio", urlò Sara gettandosi sulla catasta, sopra il corpo del figlio legato. "Uccidi me, piuttosto! Perché ricordati bene, uomo, che se toccherai questo figlio uscito dalle mie viscere sterili dopo averlo atteso per tutta la vita, io ti sgozzerò come un vitello durante il sonno, quando giacerai ebbro di vino e di oblio al mio fianco. E darò le tue carni vecchie  in pasto alla tua Belva, perché se ne cibi.
Atterrito, Abraham rispose: "donna come parli? Ricorda che il figlio che hai partorito a novant'anni non è tuo, ma è venuto per volere dell'Eterno".
"Ogni figlio che esce dalla carne di donna è di colei che lo partorisce, che già il fuoruscirlo è dolore e lutto, e richiede remunerazione per entrambi. Nessuno osa avvicinarsi ai piccoli della tigre, per non essere sbranato. E donna non è da meno.
Ricorda, uomo: se toccherai mio figlio sarai scannato come il più misero dei tuoi olocausti".
"Donna, rispose Abraham, tu pronunci parole di blasfemia e sventura. La furia dell'Eterno ci ucciderà!"
"Una sorte non peggiore di quella ch'Egli pretende per mio figlio, dunque. Che non può essere anche tua la sorte dell'olocausto? Che non puoi tu patire ciò che chiedi di patire al tuo ragazzo? Sei una capra tremebonda al cospetto di un Dio avido e spietato. Ma a me la morte non fa paura, se mi strappano il frutto del ventre".
"Me misero! esclamò Abraham. Che farò ora? Dovrò scegliere fra morire per mano di Dio o morire per mano di donna!"
"Guarda quell'ariete con le corna impigliate nel rovo, disse Sara. Chiama i servi, e fallo preparare.
Quando il fumo del sacrificio salirà alle narici del tuo Molòch, egli calmerà la sua inquietudine, sicuro ormai della tua fedeltà.
Perché d'ora innanzi la nostra progenie sacrificherà a lui soltanto agnelli, che chiameremo gli agnelli di Dio, a calmare la sua furia, affinché, nell'illusione del perdono, sollevino gli uomini del peso delle loro iniquità. Finché anche il Molòch abbia un figlio da sacrificare, che la pace e la guerra con lui non avranno fine".
E così fu. E Dio ascoltò, e pianse, e provò qualcosa che non conosceva e che chiamò vergogna, e benedisse in cuor suo la saggezza di Sara. Perché i figli non siano mai più cibo per i padri. Perché così sarà tramandato. E così sia.

domenica 31 gennaio 2016

FREUD E IL NIBBIO DI LEONARDO

Se poi bastano due dita in gola per far vomitare una ragazzina anoressica, che dovrebbe fare la coda repellente al gusto di un uccello infilata a forza nella bocca di un lattante? Quale soddisfazione erotica ne dovrebbe trarre, al punto di appassionarsi, in anni a venire, al pene dei maschi? Non dovrebbe piuttosto sviluppare una “no-entry syndrome”?
Non cessa di colpire la mia immaginazione quell’effetto di movimento improvviso che si nota nel quadro “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino” di Leonardo, che mi verrebbe spontaneo definire “il primo disegno animato della Storia”. Sant’Anna e Maria, quasi sosia e certamente coetanee, nonostante i trent’anni di sterilità trascorsi tra il matrimonio di Gioachino e Anna e la tardiva nascita della Primogenita, sono sedute l’una (Maria) in braccio all’altra, e il chinarsi verso il bambino della seconda ha come un effetto d’immagine che si anima all’improvviso, simile a quella che uscirebbe dalla matita di un disegnatore della Disney che intendesse raffigurare una donna seduta che si piega in avanti.
Nel suo famoso saggio, Freud si sofferma a lungo nell’osservare come la sorprendente giovinezza di Anna, non alluda tanto alla nonna materna quanto a Caterina, madre naturale di Leonardo, soppiantata in seguito da Donna Albiera, moglie legittima del padre, che prese con sé il bambino prima che egli compisse cinque anni.
Nella lettura di Freud, forse più preoccupata di far “tornare i conti” rispetto a un paradigma edipico che fosse in grado di spiegare il successivo sviluppo omosessuale dell’Artista, troppo poco è detto di quell’esperienza scompaginante che è, nella mente di un bambino, il “cambiare madre”.
Né forse Freud, se avesse avuto a disposizione il concetto di “oggetto transizionale”, avrebbe potuto fare a meno di notare quell’aggrapparsi del bambino all’agnello con espressione incerta e forse confusa forse per di sottrarsi al sentirsi “ghermito” da una seconda donna, improvvisamente diversa dalla madre.
Vista in questa prospettiva, la coda del nibbio appare come un “corpo estraneo” (un concetto che fu di Freud –negli Studi sull’Isteria- prima ancora che di Ferenczi), la cui pulsione appropriata sarebbe lo sputarlo; mentre il nibbio, anche se non è il Geier (avvoltoio) equivocato dalla traduzione cui aveva attinto Freud e successivamente “scoperto” da Pfister (e, in seguito, anche da Jung) fra le pieghe di un drappeggio, è pur sempre un uccello rapace.
E così mi chiedo: l’enigmaticità di un sorriso, esploso prepotentemente sul viso della Gioconda e da allora ripetuto quasi ossessivamente sul viso dei Santi, trova certamente, come osserva Freud, una spiegazione nel sovrapporsi di immagini diverse, di due volti differenti. Ma quanto di questo effetto di dispercezione ottica deriva dal desiderio fusionale di un figlio che vuole imprimere per sempre i lineamenti della madre nei propri, e quanto deriva dal ricordo di una percezione straniante, quella del volto di una madre che all’improvviso ne sostituisce un’altra? O sono entrambe le cose?

mercoledì 11 febbraio 2015

TITANOMACHIA DI FREUD

Nel 1951, Kurt Eissler scriveva:

"E' di certo in contraddizione con la formulazione di Boltzmann del secondo principio della termodinamica che il cambiamento da uno stato di ordine a uno di disordine sia più probabile del cambiamento inverso. L'aver aperto, da parte di Freud [in occasione della propria autoanalisi], una breccia nelle proprie difese, ha implicato il cambiamento da uno stato probabile a uno altamente improbabile. (...) Quando egli dovette sopportare l'assalto delle proprie libere associazioni o fu persino tentato dal supremo sforzo di volontà di spingere immagini remote e impalpabili dentro il fuoco dell'attenzione cosciente, Freud si rese conto che l'indomabile urgenza di creare spinge così spesso l'artista a deplorare la propria esistenza, oppure riuscì a sopportare il dolore generato dall'autoanalisi, soltanto in vista di un'aspettativa di felicità?
Il processo di autoanalisi, al punto della Storia in cui Freud lo intraprese, fu, per così dire, un atto contrario alla natura umana (...) egli fu il primo a rendere possibile agli uomini il pensare l'immorale e il malvagio senza trepidazione" (*).

Queste considerazioni di Eissler colpiscono oggi, in maniera non del tutto bene accetta, una sensibilità diversamente matura, rispetto a quella predominante negli anni cinquanta, verso la figura, la vicenda umana e l'opera di Sigmund Freud.
Grazie al fatto che studi storici di autori (un nome fra tanti: Paul Roazen) non inclini all'agiografia ma neppure all'antipsicanalismo preconcetto, abbiano posto in secondo piano l'opera biografica di Ernest Jones, considerata per tanti aspetti poco rigorosa e persino propagandistica, e soprattutto grazie alla pubblicazione di una considerevole quantità di materiale epistolare che fornisce al lettore ordinario una via diretta di accesso alla storia della psicoanalisi, oggi si può finalmente guardare al pensiero psicoanalitico non più come a una serie infinita di affermazioni non sempre necessariamente in accordo fra loro, la cui suscettibilità ad essere sottoposte a vaglio critico è minacciata dal timore che la loro eventuale non accettazione dipenda da conflitti irrisolti in chi legge, ma a realizzazioni umane, sorte fra dubbi, angosce, conflitti, meccanismi psichici di difesa, e non di rado anche a ragioni storicamente difensive e di politica societaria.
Leggere quindi un eccesso di aggettivi che carichino retoricamente la figura di Freud, conferendole un'aura inutilmente mitologica, può urtare la sensibilità di chi sia seriamente interessato a comprenderne l'evoluzione del pensiero.
Tuttavia, una cosa bisogna pur dirla: ed è che se noi oggi guardiamo criticamente e spesso anche aspramente al pensiero di Freud, possiamo farlo soltanto grazie alle sue scoperte e anche alle sue invenzioni, che funzionano come modelli per pensare, indipendentemente dalla loro reale esistenza oggettiva.
E un'altra cosa occorre aggiungere: che quello sforzo ci fu davvero, anche se ebbe certamente connotazioni più umane e niente affatto eroiche. Il che va anche meglio. Perché con dei, semidei e titani si è sempre destinati a intendersi poco.



(*) An unknown autobiographical letter by Freud and a short comment, Int. J. Psychoanal., 32: 319-24. Traduzione mia.

giovedì 5 febbraio 2015

UTOPIE PROFETICHE

"Pensi soltanto a cosa significherebbe poter dire la verità a tutti, al padre, al maestro, al vicino, e persino al re. Tutta l'autorità falsa, alla quale ci assoggettiamo,, se ne andrebbe al diavolo - resterebbe soltanto quella legittima.   (...) Io non penso che la concezione psicoanalitica del mondo porterà a un egualitarismo democratico; l'élite intellettuale dell'Umanità deve conservare il predominio. Platone, credo, ha prefigurato qualcosa di analogo. Naturalmente dovrebbe trattarsi di intelligenze costantemente consapevoli delle proprie debolezze, che non dimenticano e non negano il substrato istintuale-animalesco dello spirito umano. Mettere il governo nelle mani di professori superbi, pieni di sé, sarebbe il massimo dell'orrore".

Queste parole, che Ferenczi scrive a Freud in una lettera datata 5 Febbraio 1910, potrebbero apparire una sorta di improbabile e velleitario programma politico soltanto a chi le leggesse senza conoscere la complessa e dolorosa vicenda che ne è il retroscena.
In realtà, queste espressioni non hanno nulla di politico: semmai sono un frammento di quell'analisi non dichiarata che si svolse con Ferenczi nelle vesti di paziente e Freud nelle vesti apparenti di terapeuta, in  un rapporto prevalentemente epistolare che si snodò lungo un arco di 24 anni. 
In effetti Ferenczi si sdraiò anche, per poche settimane e neppure continuativamente, sul divano di Freud. Ma la vera analisi, nella quale possiamo ritrovare una vicenda relazionale e intrapsichica complessa, ricca, creativa e dolorosa consiste nel carteggio, in quelle oltre duemila lettere che per un corrispondente prolifico come Freud rappresentano la relazione epistolare più intensa di tutta la vita. 
Ma la multistratificazione di senso che a posteriori queste parole di Ferenczi rivelano è anche più ricca, perché esse non si limitano ad enunciare un desiderio: quello di una totale e per certi versi simmetrica comunicazione tra Freud e Ferenczi e fra i membri della comunità psicoanalitica in generale; ma dicono moltissimo sull'urgenza del primo nel voler conoscere ciò che gli impedisce di avvicinarsi al secondo, nella percezione di un ostacolo che non è soltanto dentro di lui, ma anche saldamente radicato nell'interlocutore.
E qui le metafore su una sottostante relazione omosessuale che rappresenterebbe un desiderio infantile per così dire preformato nella specie umana, e in qualche modo immatura e dispersiva di energie, mostrano tutto il loro corto respiro, buone tutt'al più a mostrare definitivamente tramontata la pretesa positivistica di conoscenza di una realtà che possa palesarsi in tutta la sua nuda e concreta essenza, dopo uno sforzo titanico di ricerca.

Ma volendo guardare le cose in retrospettiva è facile intuire come, nelle parole di Ferenczi,  vi sia una prefigurazione inconsapevole di tutte le declinazioni future del suo lavoro: dell'analisi reciproca in primo luogo, ma anche, ben al di là della durata della sua esistenza, degli sviluppi attuali della psicoanalisi relazionale, che deve necessariamente comporre l'asimmetria di una relazione paragenitoriale (o genitoriale tout court, quando la vicenda del paziente ne risulti troppo gravemente deprivata) con la necessità di eradicare dall'esperienza del paziente (e anche da quella dell'analista) ogni traccia ragionevolmente eliminabile di una relazione gerarchica assoggettata al "patrimonio istintuale animalesco", e all'eredità filogenetica patriarcale-predatoria. 

Vi è cioè la prefigurazione inconsapevole di una psicoanalisi diventata capace di usare agevolmente il controtransfert, di potersi muovere senza riserve mentali entro la consapevolezza che nessuno mai, paziente o analista, diverrà immune da conflitto e rimozione. Di una psicoanalisi di uomini e non di presunti esseri angelici che abbiano visto in trasparenza il fondo della propria e altrui esistenza. 


E vi è, per finire, l'intuizione di una nuova pedagogia, di cui oggi sentiamo una particolare urgenza, essendo diventati meno capaci di educare le generazioni a venire, dal momento che, avendo abbandonato i codici autoritaristici di un tempo, non siamo ancora riusciti a crearne di nuovi che tengano conto della nostra inevitabile fallibilità senza per questo farci rinunciare alla responsabilità.

domenica 1 febbraio 2015

L'AGGETTIVO "FREUDIANO"

Ho una prevalente antipatia per l'aggettivo "freudiano", definizione rischiosa e troppo spesso ellittica: quando non è usato per definire una teoria o un'opera, è spesso impiegato per proclamare un'eredità, un'appartenenza, un situarsi in un campo anziché in un altro; e in questi casi il settarismo è uno dei rischi da tenere in conto, per non dire della religiosità e del credo, deformazioni così lontane dall'originario spirito rivoluzionario della psicoanalisi.
Questo per ciò che riguarda il registro professionale: per ciò che riguarda il registro colloquiale l'uso è anche peggiore.
Questa riflessione mi scaturisce dall'ascolto di una trasmissione radiofonica (La Lingua Batte, Radiotre, domenica mattina del 1 febbraio 2015), in cui parlando di Leopardi, si chiede a Martone, autore e regista de Il Giovane Favoloso, se abbia stabilito una connessione fra la relazione del poeta con la madre e il dolore dello stesso per la propria condizione che egli fa risalire alla "natura matrigna". "Si, è così" risponde Martone: loro hanno tratteggiato la madre fredda severa e respingente e il padre geloso e autoritario, e la biblioteca paterna come una prigione dalla quale il poeta desidera fuggire, pur essendo essa la fonte enciclopedica della sua sterminata conoscenza, pensandole come matrice della condizione emotiva e della riflessione filosofica del Poeta.
"Allora ne avete dato una lettura freudiana", commenta l'intervistatore.
Ecco, la frase è sufficiente a urtare la mia sensibilità; perché in questa declinazione del pensiero ermeneutico c'è sempre una sorta di imbarazzo, di preoccupazione classificatoria, come l'ansia di relegare il "freudiano" nell'ambito dell'esotismo, della stranezza elegante, della preziosità barocca e un po' autoreferenziale.
Ma che cosa c'è di strano se un uomo che cresca in una famiglia fredda, anaffettiva, culturalmente ricca ma gelosa e preoccupata di mantenere le proprie conoscenze dentro il proprio ambito tanto spaziale (la casa, la biblioteca), e ancor più dentro il proprio spazio relazionale simbiotico? Per il padre, Giacomo non deve lasciare la casa paterna, non deve "trasgredire" i limiti del conosciuto familiare, non deve diventare il più grande poeta della letteratura italiana secondo soltanto al celebrato (dentro le mura di casa) "padre Dante". E che cosa c'è di strano se un uomo tanto creativo e tanto oppresso non desideri più di ogni altra cosa uscire dalla prigione, tanto materialmente, quando ricostruendo un'opera intellettuale, artistica, poetica che abbia la capacità di consolare, di riparare, di ricostruire la catastrofe di un incontro mancato, di una tremenda costrizione, di un'abissale solitudine stabilita fin dalle origini? Che bisogno c'è di chiamare "freudiana" (cioè lettura alternativa, secondaria, e in sospetto di costrutto artificioso o storicamente passeggero) un'evidenza tanto patente? Che la natura "matrigna" sia per il poeta stesso la propria vita familiare, le proprie origini?
O magari, nel relegare tale conoscenza nell'ambito iniziatico di pochi non c'è forse il senso di disagio  che deriva dal constatare che ciò che è patrimonio dell'umanità, nostra vitale proprietà, base stessa del nostro pensiero (come lo sono le Mura di Ninive, recentemente distrutte dalla psicotica arroganza dell'Isis), è in realtà il prodotto di un dolore indicibile, la conseguenza di un evento almeno teoricamente evitabile come il cattivo accoglimento di un bambino non o malamente amato nella propria famiglia? Non c'è forse l'oscura e colpevolizzante impressione che in tali casi l'Artista sia in realtà una vittima sacrificale, il cui sacrificio ci consegna l'opera immortale che ci riscatta? Ma nessun Poeta è Cristo, e forse molti di loro avrebbero preferito essere felici in vita anziché circondati dalla memoria eterna.

martedì 13 gennaio 2015

CONOSCERSI, NON CONOSCERSI

Sono tanti anni che ci frequentiamo, mi dice M. con tono di rimprovero, e a questo punto io so di lei più di quanto lei sappia di me”.
Chissà, mi chiedo, che cosa M. sa di me, e che cosa io realmente so di lei (anche se quello che di lei mi sembra di sapere non è poco).
Di certo, la self-disclosure ci ha cambiati molto, anche se, in tempi non sospetti, l'analista mi diceva che era inutile che io cercassi di indagare sulla sua vita, perché tanto avrei conosciuto di lei molte più cose semplicemente restandole accanto.
Conoscersi, non conoscersi: inconsci che dialogano fra loro, noncuranti dell'arrivo, sempre troppo tardivo, dei radar della coscienza.

M., in questi anni, deve aver imparato molto da miei scritti autobiografici, un modo che ho di continuare la mia analisi. E poiché non sembra per niente turbata di ciò “che ha appreso di me”, c'è da pensare che lo sia del mio modo di analizzare me stesso, in attesa che lei faccia altrettanto. La prossima volta che la vedrò, dovrò ricordarmi di dirle che nessuna psicoanalisi è possibile senza che entrambi facciamo una seria e profonda autoanalisi. E io devo certamente aiutarla in questo; ma senza la sua attiva collaborazione, nulla io posso.

domenica 4 gennaio 2015

L'INVIDIA DEGLI OGGETTI

Uno. Il tutor e la psicoterapeuta in formazione ricevono la mamma di Pamela, una ragazzina di dodici anni. Pamela è in psicoterapia con la dottoressa Marina K.  in tirocinio presso il servizio pubblico del quale il tutor è dirigente medico. L’organizzazione del tirocinio prevede che la dottoressa K., che ha raggiunto una preparazione ragionevolmente approfondita ed è persona dotata di attitudini relazionali e terapeutiche giudicate soddisfacenti, possa seguire in psicoterapia individuale la giovane paziente. Il compito del tutor è invece quello di supervisionare settimanalmente il lavoro clinico della più giovane collega, e di curare i rapporti con la famiglia della paziente.
Al suo ingresso la mamma si rivolge al tutor (uno psichiatra anziano con la barba bianca), chiamandolo “signor Professore”. Quando si rivolge alla psicoterapeuta della figlia, invece, la chiama “Marina” usando -unilateralmente- il “tu”.
Due. Il dottor B. ha in analisi due pazienti con lo stesso sintomo: arrivano alle sedute sistematicamente in ritardo. Il primo è un ingegnere di trent’anni, il secondo è un bambino delle elementari.
Quando l’ingegnere entra in seduta scusandosi per l’abituale e compulsivo ritardo, il dottor B. dice qualcosa, rivolgendosi in realtà non a una sola, ma a due persone: quella che desidera venire alla seduta, e quella che la ostacola sistematicamente; il loro ritardo è una formazione di compromesso fra due esigenze opposte.
Quando il bambino entra in seduta sistematicamente in ritardo, il dottore non dice nulla, ma accoglie il giovane paziente con un sorriso affettuoso. In questo caso, la parte “che non vuol venire” è la stessa che accompagna il bambino, ed è rimasta in sala d’attesa: impossibile parlarle, almeno per il momento.
Tre. Teresa F. ha avuto una lunga esperienza incestuosa con il padre, iniziata in tenera età e protrattasi fino al tempo dell’Università, quando circostanze esterne misero fine alla relazione. La donna sarà segnata da questa esperienza per tutta la vita. Giunta all’età di sessantadue anni, decide di andare in analisi presso una professionista nota per aver scritto libri nei quali racconta le proprie esperienze professionali in materia di tutela dei bambini vittime di abuso sessuale.
Durante l’analisi, fra le due donne s’instaura un’intima alleanza, come tra una figlia offesa dal padre e una buona madre protettiva. Dopo cinque anni di analisi intensa e produttiva, accade qualcosa di inaspettato. La paziente sogna un rapporto sessuale con il padre, durante il quale si sveglia in preda ad un violento orgasmo.
Il giorno dopo, ancora profondamente turbata dall’accaduto, la donna racconta all’analista, come di consueto, il sogno. Durante l’elaborazione successiva del materiale onirico le tornano alla mente episodi nei quali si è sentita, oltreché umiliata e angosciata, anche ambivalentemente eccitata e desiderosa delle carezze del padre. Ora, la donna si sente profondamente sporca, indegna: teme oltretutto di aver tradito la fiducia dell’analista, le cui rassicurazioni paiono insufficienti a tranquillizzarla. La donna si sente complice del padre, e come tale, “nemica” dell’analista, da lei idealizzata come “vendicatrice” dei bambini abusati.
Quattro. In psicoanalisi ciò che chiamiamo “oggetto” indica per lo più una persona. La “teoria delle relazioni d’oggetto”, contempla la nascita, lo sviluppo e le vicissitudini della relazione fra un “soggetto” (il lattante) e i propri “oggetti d’investimento affettivo” (soprattutto il primo: la madre). Gli oggetti possono essere buoni o cattivi, accoglienti o rifiutanti e spesso sottoposti, quando la relazione con essi produca angoscia, a complessi meccanismi di scissione. In ogni caso, il destino di un oggetto, buono o cattivo che sia, è quello di essere “introiettato”, cioè di venire a far parte della dotazione interna del soggetto. Per questa ragione, ognuno di noi acquisisce caratteri e abitudini buone e cattive delle persone che furono maggiormente significative, soprattutto durante la prima infanzia. Ed è per la stessa ragione che le persone gravemente traumatizzate da comportamenti altrui, continuano a sentirsene perseguitate anche molto tempo dopo il trauma patito: proprio come se il "persecutore" si fosse stabilmente insediato dentro di loro.
Cinque. Negli esempi uno due e tre, sopra riportati, sono descritte varie situazioni in cui un “oggetto” può essere invidioso di una nuova e più proficua relazione nella quale il  soggetto si sente accudito.
Sia nel caso della madre di Pamela, sia nel caso del genitore che aspetta il bambino fuori della stanza, l’oggetto che ostacola la relazione terapeutica è l’oggetto “reale”, cioè il genitore in carne e ossa che svaluta nel primo caso, e ostacola nel secondo la relazione terapeuta-paziente.
Nel caso uno, l’atteggiamento ossequioso nei confronti del tutor e pesantemente svalutante nei confronti della psicoterapeuta, tradiscono l’invidia materna verso quest’ultima, rispetto alla quale le prerogative materne si sentono umiliate. E’ possibile che un’altra riesca in ciò in cui lei teme di aver fallito? O magari la relazione terapeutica non risulterà essere rivelatrice di mancanze, di errori, di trascuratezze che una madre “ideale” non dovrebbe aver commesso nei confronti della propria bambina? 
Nel caso del genitore che accompagna il bambino sistematicamente in ritardo, nulla si può dire prima di conoscere la sua disposizione emotiva; tranne che quest’ultima, comunque motivata, ha sempre il sopravvento sugli interessi del bambino, perpetuandosi così, per il figlio, l’esperienza di sentirsi pesantemente trascurato.
Nel caso due, invece, l’”oggetto” invidioso non è il genitore reale (ormai non più in vita all’epoca dell’analisi della figlia), ma la sua rappresentazione interna che “agisce” come un fantasma che torna, in sogno, a ricordare alla figlia una passione condivisa, e, sostanzialmente, a manifestare all’analista la propria rappresaglia contro la “lotta” che la stessa condurrebbe nei confronti dei padri incestuosi.
E’ la rivincita, per fortuna non sempre vittoriosa, degli oggetti che falliscono nel compito di accudire.